Éric-Emmanuel Schmitt – Il più bel libro del mondo
L’arrivo di Olga suscitò nelle donne un fremito di speranza. Non che Olga avesse un’aria particolarmente rassicurante: lunga e secca, con gli ossi delle mascelle e dei gomiti sporgenti sotto la pelle scura, entrò senza degnare di uno sguardo le altre abitanti del padiglione. Sedette sul pagliericcio sbilenco che le avevano assegnato, sistemò le sue cose sul fondo della cassapanca di legno, ascoltò la guardiana sbraitarle in faccia il regolamento come se lo gridasse in alfabeto morse, sollevò per un attimo il capo quando questa le indicò i bagni, poi, andata via la sorvegliante, si sdraiò sulla schiena, fece scrocchiare le dita e si immerse nella contemplazione delle travi annerite del soffitto.
“Avete visto che capelli?” mormorò Tatiana.
Le altre prigioniere non capirono cosa intendesse. La nuova ostentava una chioma spessa, crespa, robusta, fitta che le raddoppiava il volume della testa: una salute e un vigore solitamente appannaggio delle africane…ma Olga, nonostante la carnagione olivastra, non aveva alcun tratto negroide e, visto che si trovava in Siberia in un campo di concentramento per donne che non la pensavano in maniera ortodossa, veniva con tutta probabilità da una città dell’Unione Sovietica.
“Beh, che hanno i suoi capelli?”.
“Secondo me è caucasica”.
“È vero, certe volte le caucasiche hanno la paglia in testa”.
“Sono proprio brutti quei capelli, hai ragione”.
“Macché, sono magnifici. Io, che li ho lisci e sottili, avrei adorato averli come lei”.
“Piuttosto la morte. Sembra crine”.
“A me sembrano peli di…zone intime!”.
L’ultima ossarvazione, fatta da Lily, sollevò un coro di risatine soffocate.
Tatiana aggrottò le sopracciglia e riportò il silenzio nel gruppo dichiarando:
“Potrebbero nascondere la soluzione”.
Desiderose di compiacere Tatiana, che tutte consideravano il capo sebbene fosse una detenuta come le altre, le donne si spremevano le meningi per cercare di capire ciò che che non arrivavano a capire: quale soluzione avrebbe mai potuto fornire la capigliatura di una sconosciuta alle loro vite di devianti politiche in rieducazione forzata? Quella sera il campo era sepolto sotto una coltre di neve. Fuori era buio pesto, a parte un’unica lanterna che la bufera faceva di tutto per spegnere, e la temperatura sotto zero non aiutava certo la riflessione.
“Vuoi dire che…?”.
“Già. Voglio dire che si possono nascondere un sacco di cose in una criniera del genere”.
Tutte osservarono un rispettoso silenzio. Alla fine una azzardò:
“Pensi che abbia portato una…”.
“Si”.
Lily, una graziosa biondina che malgrado i rigori del lavoro, del clima e del cibo immondo continuava a essere pasciuta come una figlia di papà, si permise di dubitarne.
“Dovrebbe averci pensato…”.
“Perché no?”.
“Beh, a me, prima di arrivare qua, non sarebbe mai venuto in mente”.
“Infatti sto parlando di lei, non di te”.
Sapendo che Tatiana l’avrebbe comunque spuntata, Lily non raccolse l’offesa e si rimise a cucire l’orlo della gonna di lana.
Fuori di udiva il gemito gelido della tormenta.
Lasciate le compagne, Tatiana percorse il corridoio centrale della camerata, si avvicinò al letto della nuova e si fermò aspettando un segno che le facesse capire di essere stata notata dall’altra.
Un fuocherello stentato agonizzava nella stufa.
Dopo qualche minuto di assoluta mancanza di reazioni, Tatiana si decise a rompere il silenzio.
“Come ti chiami”.
Una voce profonda pronunciò “Olga” senza che nessuno vedesse muoverle le labbra.
“E perché sei qui?”.
Il viso di Olga non si mosse. Una maschera di cera.
“Eri la fidanzata di Stalin e lui si è stufata di te, vero? Come tutte noi qui!”.
La battuta era quasi un rituale con cui venivano accolte quelle che si ribellavano al regime stalinista, ma le parole di Tatiana scivolarono sulla sconusciuta come un ciottolo sul ghiaccio.
“Io mi chiamo Tatiana. Vuoi che ti presenti le altre?”.
“Avremo tempo, no?”.
“Certo che avremo tempo… passeremo mesi in questo buco, anni…forse ci moriremo…”.
“Appunto, avremo tempo”.
Per tagliare corto, Olga chiuse gli occhi e si girò contro il muro, voltanto così le spalle ossute a ogni ulteriore conversazione.
Rendendosi conto che non avrebbe cavato di più, Tatiana tornò dalle compagne.
“È una dura. Meglio. Ci sono più probabilità che…”.
Con un cenno di approvazione, tutte, Lily compresa, decisero di attendere.
Nelle settimane che seguirono, la nuova concesse a stento una frase al giorno, e anche quella bisognava tirargliela fuori a forza: un comportamento che consolidò le speranze delle pensionanti di più vecchia data.
“Sono sicura che ci ha pensato” finì per dire Lily, sempre più convinta a ogni ora che passava. “Ha proprio l’aria di quella che ci ha pensato”.
Costretto dalla nebbia a un perenne grigiore, il giorno apportava una luce fievole. Quando la nebbia si diradava, uno schermo impenetrabile di nuvole opprimenti gravava sul campo come un’armata di sentinelle.
Visto che nessuna riusciva a guadagnarsi la fiducia di Olga, puntarono sul fatto che alla prima doccia avrebbero scoperto per forza se la nuova nascondeva… Ma il freddo era tale che nessuna se la sentiva di spogliarsi: l’impossibilità di asciugarsi e il riscaldamento improbabile limitavano le donne a una toilette furtiva, minimale. Tra l’altro, in un mattino di pioggia, scoprirono che la chioma di Olga era talmente folta che le gocce vi scivolavano sopra senza penetrarvi, come una cuffia impermeabile.
“Pazienza” decise Tatiana. “Dovremo correre il rischio”.
“Di chiederglielo?”.
“No. Di farglieli vedere”.
“E se è una spia? Se è stata mandata per tenderci una trappola?”.
“Non ha l’aria di essere una spia” disse Tatiana.
“È vero, non ne ha per niente l’aria” confermò Lily tirando un filo del suo cucito.
“Invece si che ne ha l’aria! Che ne sai che non fa la scorbutica, la dura, la muta, quella che non viene a patti con nessuno, apposta per conquistarsi la nostra amicizia?”.
Era stata Irina a fare questo ragionamento, sorprendendo le altre e sorprendendosi lei per prima della coerenza di quel che diceva. Lo stupore non le impedì di continuare:
“Io stessa non saprei fare di meglio, se mi affidassero l’incarico di spiare una baracca di dissidenti politiche. Ti fai passare per una taciturna, una solitaria, e poco a poco raccogli le confidenze di tutte. È più furbo che mostrarsi cordiale, no? Forse si è appena infiltrata tra noi la più scaltra informatrice dell’Unione Sovietica”.
Lily ne fu subito così convinta che si punse il polpastrello con l’ago. Spuntò una goccia di sangue, che lei guardò con terrore.
“Devo farmi cambiare di baracca e in fretta!”.
Interviene Tatiana:
“Il tuo ragionamento è giusto, Irina, ma è pur sempre un ragionamento. Il mio intuito mi dice il contrario. Secondo me ci possiamo fidare, è una come noi. Anzi, più dura di noi”.
“Aspettiamo ancora, però, perché se ci beccano…”.
“Si, aspettiamo. E soprattutto, cerchiamo di esasperarla. Non parliamole più. Se è una spia messa qua per denunciarci, andrà nel panico e cercherà di avvicinarsi a noi. Al minimo passo, ci svelerà la sua tattica”.
“Ben detto” approvò Irina. “Ignoriamola e teniamo d’occhio la sua reazione”.
“È spaventoso…” sospirò Lily leccandosi il dito per affrettare la cicatrizzazione.
Per dieci giorni nessuna prigioniera del Padiglione 13 rivolse la parola a Olga. In un primo momento sembrò che lei neanche se ne accorgesse; poi, quando se ne rese conto, il suo sguardo divenne più duro, quasi minerale. Peraltro non accennò il minimo gesto per rompere quel silenzio di ghiaccio. Accettava l’isolamento.
Dopo la minestra, le donne si riunirono intorno a Tatiana.
“È la prova, no? Non ha battuto ciglio”.
“Si, è spaventoso…”.
“Per te, Lily, è tutto spaventoso…”.
“Ammetterete che è una cosa da incubo: essere respinta dal gruppo, rendersene conto e non muovere un dito per evitare l’esclusione! È quasi disumano… Mi chiedo se questa Olga abbia un cuore”.
“Tu che ne sai che non soffre?”.
Lily smise di cucire e appuntò l’ago in un grumo del tessuto: non ci aveva pensato. Subito gli occhi le si riempirono di lacrime.
“L’abbiamo fatta soffrire?”.
“Immagino che soffrisse anche prima. Forse ora soffre un po’ di più”.
“Poverina! Colpa nostra…”.
“Però credo che possiamo contare su di lei”.
“Hai ragione” esclamò Lily asciugandosi le lacrime con la manica. “Diamole fiducia. Mi fa troppo male pensare che è una carcerata come noi e che aggiungiamo dolore al dolore rendendole la vita impossibile”.
Qualche minuto di consultazione, e le donne decisero che avrebbero corso il rischio di svelare a Olga il loro piano. Se ne incaricò Tatiana.
Poi il campo ripiombò nel suo torpore. Fuori era tutto ghiacciato, qualche scoiattolo furtivo frugava nella neve tra le baracche.
Con la mano sinistra Olga sbriciolava una vecchia crosta di pane, con la destra reggeva la scodella vuota.
Tatiana si avvicinò.
“Lo sapevi che hai diritto a un pacchetto di sigarette ogni due giorni?”.
“Pensa un po’ che lo sapevo e che me le stavo pure fumando!”.
La risposta era uscita dalla bocca di Olga come una fucilata: violenta, impetuosa, bruscamente accelerata da una settimana di silenzio.
Al di là del tono aggressivo, Tatiana notò che Olga aveva parlato più del solito: i rapporti umani dovevano mancarle…
Ritenne quindi di poter continuare.
“Visto che non ti sfugge niente, ti sarai accorta che nessuna di noi fuma. Giusto un paio, quando ci sono le sorveglianti”.
“Ehm… si. No. Che vuoi dire?”.
“Non ti sei chiesta cosa ci facciamo con le sigarette?”.
“Me lo posso immaginare: le scambiate. È il denaro del campo. Perché, me ne vuoi vendere qualcuna? Non ho niente da darti in cambio…”.
“Sbagliato”.
“Con che si paga allora, visto che soldi non ce ne sono?”.
Olga scrutò Tatiana con una smorfia sospettosa, come se già sapesse che stava per venire a conoscenza di qualcosa di disgustoso. Tatiana si prese quindi il tempo di rispondere.
“Non vendiamo le nostre sigarette e nemmeno le scambiamo. Le usiamo per qualcosa di diverso che fumare”.
Conscia di aver stuzzicato la curiosità di Olga, Tatiana chiuse lì la conversazione, ben sapendo che la propria posizione ne sarebbe uscita rafforzata se fosse stata l’altra a venire da lei per sentire il seguito.
Quella stessa sera Olga si recò da Tatiana e la fissò a lungo, quasi sfidandola a rompere il silenzio. Invano. Tatiana la ripagava con la stessa moneta del primo giorno. Olga finì per cedere.
“Beh, allora che ci fate con le sigarette?”.
Tatiana si girò verso di lei e ne sondò lo sguardo.
“Ti sei lasciata dietro persone che ami?”.
Per tutta risposta, il volto di Olga fu increspato da una contrazione di dolore.
“Anche noi” proseguì Tatiana. “Ci mancano i nostri uomini. Ma la preoccupazione per loro, alla fine, è la stessa che abbiamo per noi, stanno solo in un altro campo. No, la tortura vera sono i figli…”.
La voce di Tatiana si incrinò: la sua mente era appena stata occupata dall’immagine delle due figlie. Solidale, Olga le posò una mano sulla spalla, una mano robusta, forte, quasi maschile.
“Ti capisco, Tatiana. Anch’io ho lasciato una figlia. Per fortuna ha ventun anni”.
“Le mie ne hanno otto e dieci…”.
Concentrata a trattenere le lacrime, non riuscì a continuare. D’altronde non c’era altro da aggiungere.
La rude mano di Olga forzò la testa di Tatiana contro la propria spalla, e l’eterna ribelle, la caporiona, la dura della baracca, avendo trovato qualcuna più dura di lei, si abbandonò ad alcuni secondi di pianto sul petto di una sconosciuta.
Passato l’attacco di commozione, Tatiana riprese il filo del discorso.
“Ecco a cosa ci servono le sigarette: togliamo il tabacco e conserviamo la carta. Poi incolliamo le cartine l’una con l’altra e riusciamo a tirarci fuori una pagina di carta vera. Guarda ti faccio vedere”.
Sollevata una tavola del pavimento, Tatiana estrasse da un nascondiglio pieno di patate un frusciante mazzetto di fogli fatti di cartine di sigarette le cui fini nervature erano ingrossate da suture e giunture, come una specie di papiro millenario finito in Siberia per chissà quale aberrazione archeologica.
Lo posò con precauzione sulle ginocchia di Olga.
“Ora lo sai. Prima o poi una di noi uscirà, per forza… E porterà fuori i nostri messaggi”.
“Bene”.
“Come avrai immaginato, c’è un problema”.
“Si, lo vedo. I fogli sono vuoti”.
“Vuoti. Di qua e di là. Perché non abbiamo penna né inchiostro. Mi sono persino fatta dare uno spillo da Lily per provare a scrivere con il sangue, ma si cancella subito… In più, ho problemi a cicatrizzare. Mancanza di piastrine. Denutrizione. Nessuna voglia di andare in infermeria a destare sospetti”.
“Perché mi dici queste cose? Che c’entro io?”.
“Immagino che anche tu vorrai scrivere a tua figlia”.
Olga lasciò trascorrere un buon minuto prima di rispondere in tono ruvido:
“Si”.
“Allora ecco la proposta: noi ti diamo la carta e tu ci dai la matita”.
“Cosa ti fa pensare che abbia una matita? È la prima cosa che ti levano quando ti arrestano. E come tutte, sono stata perquisita un’infinità di volte prima di arrivare qui”.
“I tuoi capelli…”.
Tatiana indicò la folta criniera che faceva da aureola alla maschera severa di Olga. Insisté.
“Vedendoti arrivare mi è subito venuto in mente che…”.
Olga la fermò con la mano e, per la prima volta, sorrise.
“Hai visto giusto”.
Sotto lo sguardo sbigottito di Tatiana si infilò una mano dietro l’orecchio, frugò tra i riccie, con gli occhi che le brillavano, tirò fuori una piccola matita che porse alla sua compagna di detenzione.
“Affare fatto!”.
È difficile dare una misura della gioia che riscaldò l’animo delle detenute durante i giorni che seguirono. Insieme a quella piccola mina di grafite venivano loro restituiti cuore, legami con il mondo di prima e possibilità di mandare un abbraccio ai figli. La prigionia diventava meno pesante. Il senso di colpa pure. Alcune di loro, infatti, provavano rimorso per aver anteposto l’azione politica alla vita familiare, e ora che si trovavano relegate in fondo a un gulag, con i figli affidati alla stessa società che avevano detestato e combattuto, rimpiangevano di essere state delle militanti, si accusavano di essere venute meno ai propri doveri rivelandosi delle pessime madri. Non avrebbero fatto meglio, come tanti sovietici, a tacere e rifugiarsi nei valori domestici? A salvare la propria pelle e quella dei propri cari anziché lottare per la pelle di tutti?
Sebbene ogni detenuta avesse a disposizione parecchi fogli, non c’era che una matita. Dopo molte riunioni, decisero che ognuna avrebbe avuto diritto a tre pagine, poi il tutto sarebbe stato cucito in un unico quaderno pronto a uscire non appena se ne sarebbe presentata l’occasione.
Seconda regola: ognuna era tenuta a redigere le proprie pagine senza cancellature, in modo da usare la matita il meno possibile.
Le decisioni furono approvate quella sera stessa nell’entusiasmo generale, ma già dal giorno dopo cominciarono a presentarsi le difficoltà. Di fronte all’obbligo di concentrare il proprio pensiero in tre pagine, le donne si lasciavano prendere dallo sgomento: dire tutto in tre pagine… Come fare per mettere insieme tre fogli essenziali, tre pagine testamentarie che esprimessero l’essenza del proprio vivere, tre papiri per lasciare la propria anima e i propri valori in eredità ai figli, per indicare loro, e per sempre, qual’ era stato il senso del proprio passaggio sulla terra?
L’esercizio si rivelò una tortura. Ogni sera dalle brande provenivano singhiozzi. Alcune prigioniere persero il sonno, altre gemevano in sogno.
Ogni volta che le pause del lavoro obbligatorio lo permettevano, cercavano di scambiarsi le idee.
“Io voglio raccontare a mia figlia perché sono qui e non con lei. Sperando che mi capisca e, possibilmente, mi perdoni”.
“Tre fogli di coscienza sporca per farti la coscienza pulita! Credi davvero che sia una buona idea?”.
“A me va di raccontarle come ho conosciuto suo padre, perché sappia che è il frutto di una storia d’amore”.
“Ah si? Si chiederà come mai non hai continuato quella storia d’amore con lei”.
“Io ho voglia di raccontare alle mie tre di quando le ho partorite: sono stati i momenti più belli della mia vita”.
“Belli e brevi. Ma forse ci restano un po’ male che i tuoi ricordi si limitino alla loro nascita, non credi? Parla anche di quello che è successo dopo”.
“Io scriverò tutto ciò che vorrei fare per loro”.
“Mmm…”.
Chiacchierando, scoprirono un particolare curioso: tutte avevano dato alla luce figlie femmine. La coincidenza le divertì, e le stupì tanto che si chiesero se la decisione delle autorità di incarcerare nel Padiglione 13 solo madri di femmine non fosse stata intenzionale.
La novità non modificò comunque il loro rovello: cosa scrivere?
Ogni sera Olga alzava la matita e la offriva alla camerata:
“Chi vuole cominciare?”.
Ogni sera la domanda cadeva nel vuoto. Il tempo scorreva in maniera tangibile, come goccie di stalattiti dal soffitto di una grotta. Le donne, a testa bassa, aspettavano che una di loro gridasse ‘Io’ e liberasse per un po’ le altre dal disagio, ma dopo qualche colpo di tosse e alcune occhiate furtive le più coraggiose finivano per rispondere che volevano pensarci ancora.
“Io ho quasi le idee chiare… Domani, mi sa…”.
“Si, anch’io sto andando avanti, ma non sono ancora sicura…”.
I giorni si susseguivano sferzati dalla tormenta o cristallizzati da brina immacolata. Dopo aver atteso quella matita per due anni, passarono tre mesi senza che nessuna la chiedesse o la accettasse.
Così la sorpresa fu grande quando una domenica, dopo che Olga ebbe sollevato il lapis e pronunciato la frase rituale, Lily si precipitò a rispondere:
“Io, grazie”.
Tutte si girarono stupefatte verso la bionda e pingue Lily, la più sprovveduta tra loro, la più sentimentale, la meno volitiva. Insomma, diciamolo: la più normale. Se avessero dovuto pronosticare quale prigioniera avrebbe inaugurato la scrittura dei fogli, di sicuro Lily sarebbe finita agli ultimi posti. Veniva prima Tatiana, forse Olga, magari Irina… ma la banale e soave Lily?
Tatiana non poté fare a meno di balbettare:
“Sei.. sei sicura… Lily?”.
“Si, credo di si”.
“Non è che ti sbagli, poi correggi… insomma, che sprechi la matita?”.
“No, ci ho pensato bene. Dovrei farcela senza cancellature”.
Scettica, Olga consegnò la matita a Lily. Mentre gliela dava, scambiò uno sguardo d’intesa con Tatiana, quasi a confermarsi reciprocamente che stavano commettendo una sciocchezza.
Nei giorni successivi, le donne del Padiglione 13 seguirono con gli occhi Lily ogni volta che, seduta per terra, si isolava a scrivere alternando inspirazione – occhi al soffitto – ed espirazione – spalle curve per nascondere alle altre i segni che tracciava sulla carta.
Il mercoledì annunciò soddisfatta:
“Ho finito. Chi vuole la matita?”.
Un silenzio di piombo accolse la domanda.
“Chi vuole la matita?”.
Nessuna osava guardare le altre.
“Bene” concluse tranquillamente Lily. “La rimetto nella testa di Olga e aspettiamo domani”.
Olga si limitò a emmettere un breve grugnito quando Lily le nascose l’oggetto in mezzo al cespuglio di capelli.
Una persona diversa da Lily, meno buona, più smaliziata sulle complessità dell’animo umano, avrebbe notato che le donne del padiglione la guardavano ormai con gelosia, persino con un pizzico di odio.
Com’era possibile che proprio Lily, praticamente un’idiota, fosse riuscita dove le altre non ce la facevano?
Trascorse una settimana in cui ogni sera, a ogni donna, venne fornita l’occasione di rivivere la propria sconfitta.
Finalmente, il mercoledì successivo a mezzanotte, mentre un concerto di respiri indicava che la maggior parte delle donne dormiva, Tatiana, stanca di girarsi e rigirarsi sul pagliericcio, si trascinò quatta quatta fino al letto di Lily.
Lei sorrideva, lo sguardo fisso al soffitto buio.
“Lily, ti supplico, mi dici cosa hai scritto?”.
“Certo. Lo vuoi leggere?”.
“Si”.
Ma come? Il coprifuoco era passato da un pezzo.
Tatiana si rannicchiò presso la finestra. Al di là delle ragnatele si stendeva un manto di neve pura reso azzurro dalla luna piena; torcendo il collo, la donna riuscì a decifrare i tre fogli. Lily si avvicinò e, con il tono della bambina che ha appena commesso una sciocchezza, domandò:
“Allora, che ne pensi?”.
“Lily, sei grande!”.
E Tatiana la prese tra le braccia e la baciò più volte sulle guancie paffute.
Il giorno dopo. Tatiana chiese a Lily due favori: il permesso di seguire il suo esempio e il permesso di parlarne alle altre.
Lily, abbassò le palpebre, arrossì come se le avessero offerto dei fiori e cinguettò una frase fatta di gorgoglii e pigolii che significava si.
Epilogo
Mosca, dicembre 2005.
Dagli avvenimenti sopra narrati sono trascorsi cinquant’anni.
La persona che scrive queste righe è in visita in Russia. Il regime sovietico è caduto, i campi di concentramento non ci sono più, il che non vuol dire che sia scomparsa l’ingiustizia.
Nei saloni dell’ambasciata francese incontro gli attori che da anni portano in scena i miei lavori teatrali.
Una di loro, una donna di una sessantina d’anni, mi prende il braccio con una sorta di affettuosa familiarità, un misto di sfrontatezza e di rispetto. Ha un sorriso che trasuda bontà. Impossibile resistere a quelle pupille color malva… La seguo fino alla finestra del palazzo da cui si gode il panorama delle luci di Mosca.
“Vuole che le faccia vedere il più bel libro del mondo?”.
“Veramente speravo di scriverlo io, ma a quanto sento è troppo tardi. Lei mi annienta. Ma ne è sicura? È proprio il più bel libro del mondo?”.
“Si. Per quanti libri belli si possano scrivere, questo è il più bello”.
Ci accomodiamo sui divani troppo grandi e troppo usati che arredano le pareti di tutte le ambasciate del mondo.
La donna mi racconta la storia di sua madre, una certa Lily, che ha trascorso vari anni nel gulag, poi la storia delle donne che con lei hanno condiviso la prigionia e infine la storia del libro così come ve l’ho appena raccontata.
“Il quaderno ce l’ho io, perché mia madre è stata la prima a uscire dal Padiglione 13. Riuscì a portarlo fuori cucito nella sottogonna. Ora mamma è morta e le altre pure, ma di quando in quando le figlie delle sue compagne lo vengono a sfogliare da me: prendiamo il tè, parliamo delle nostre mamme e rileggiamo il libro. Hanno affidato a me il compito di conservarlo. Quando io non ci sarò più, non so che fine farà. Chissa se lo vorrà qualche museo. Ne dubito. Eppure è il più bel libro del mondo. Il libro delle nostre madri”.
Avvicina il suo volto al mio come se volesse baciarmi, invece mi strizza l’occhio.
“Lo vuole vedere?”.
Prendiamo appuntamento.
L’indomani salgo il gigantesco scalone che conduce all’appartamento dove la signora vive con la sorella e due cugine.
In mezzo al tavolo, tra tè e biscottini, mi aspetta il libro, un quaderno di fogli fragilissimi che i decenni hanno reso ancora più friabili.
Le signore mi piazzano su una poltrona dai braccioli logori e comincio a leggere il più bel libro del mondo, scritto da donne che combattevano per la libertà, da ribelli che Stalin considerava pericolose, dalle indomite madri del Padiglione 13 che avevano dedicato tre fogli ciuscuna alle loro figlie temendo di non rivederle mai più.
Su ogni pagina era scritta una ricetta di cucina.